Il cavallo di Troia dell’estetica contemporanea
- Federico Babbo
- 28 lug
- Tempo di lettura: 20 min
Perché la scultura per la critica non può diventare architettura? Chi lo ha detto?
La riflessione sulla natura dell’arte e dell’architettura, sul valore della forma e della funzione, si intreccia oggi con la riscoperta dell’inconscio come motore creativo. Ho raccolto alcuni post pubblici di Luigi Prestinenza Puglisi sulla sua pagina Facebook, e alcuni miei relativi commenti, perché credo che il confronto diretto con le sue parole possa illuminare un problema critico di ampia portata:
24 luglio 2025 AUTOBIOGRAFIA A-SCIENTIFICA: molti pensano che io sia uno zeviano, il che è in parte falso. Se c’è un critico al quale devo la mia formazione è Giulio Carlo Argan. Avevo divorato la sua Storia dell’arte italiana quando studiavo al liceo Mamiani e in seguito ogni giorno mi confrontavo con le sue tesi perché utilizzavo proprio il suo testo al liceo Assunzione dove insegnavo la storia dell’arte già da quando avevo 19 anni e avevo alunni a me coetanei. Ricordo anche che ero andato a sentire qualche sua lezione a Lettere pensando di fare l’esame con lui. Ma poi lasciai perdere perché non aveva senso dare un esame su una materia che già pensavo di conoscere: la mia passione era l’arte. Grazie ad Argan mi sono avvicinato alla scuola iconologica e a Panofsky. E attraverso lui a Cassirer che è uno dei miei riferimenti. Quelli erano gli anni in cui gli intellettuali con il birignao - esistevano anche allora i radicalini che i libri non li leggono ma li sfogliano seguendo le mode-non facevano che citare Marx e la dialettica. Io, invece, non riuscivo a vedere che la filosofia della scienza e quindi Kant. E Cassirer dei kantiani è il più chiaro e il più brillante.
Mio commento a questo post di Puglisi:
Gentile Luigi Prestinenza Puglisi,
il 15 maggio scorso le ho inviato il breve saggio "Può esistere una continuità tra scultura e architettura?", una riflessione che affonda nel gesto, nella materia e nel tempo vissuto, come luogo d’incontro tra corpo, spazio e forma.
Oggi, leggendo il suo post in cui, tra i molti studiosi e intellettuali che stimo e che lei richiama come suoi riferimenti fondamentali, cita Cassirer, ho cercato nella sua bacheca un intervento in cui si definiva funzionalista parlando di Zaha Hadid e delle “leggi della forma”. Per ritrovarlo, ho digitato le parole Cavallo di Troia, ricordando che proprio con questa immagine avevo commentato, il 3 giugno, uno dei suoi post:
"Voi tecnici e critici, se continuerete a vedere la scultura come qualcosa di chiuso in se stessa e non come architettura, non stupitevi quando arriverà il Cavallo di Troia. Perché questa volta non sarà solo una scultura, ma uno spazio abitato dai vostri peggiori nemici: gli artisti-architetti. 🐴🙈🙉🙊😄😉🤪😘"
Inaspettatamente, la ricerca mi ha riportato anche a un suo post dell’11 aprile 2018 in cui raccontava un sogno vivido e simbolico, con protagonista un progettista e un certo Ippolito Settanta. Forse, oggi, quel nome acquista per me un altro significato. Forse ero io, o forse lo sono diventato.
Nel frattempo, ho ripreso in mano anche Cassirer. E sì, è chiaro, raffinato, un grande pensatore del simbolo. Ma in certi passaggi, come quello tratto dal Saggio sull’uomo (Cassirer E., An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture (1944); trad. it. Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Armando, Roma 2004, p. 96), emerge anche una fiducia piena nella funzione come principio vivificante:
"L’essenziale non sono i mattoni e le pietre usate per costruire, ma è la loro funzione generale in termini architettonici. Nel campo del linguaggio, ciò che vivifica i segni materiali e che ‘li fa parlare’ è la loro funzione generale simbolica. Senza questo elemento vivificante, il mondo umano resterebbe invero sordo, muto e cieco. Per contro, se esso è presente, anche il mondo di un bambino sordo, muto e cieco può divenire incomparabilmente più vasto e più ricco del mondo dell’animale più sviluppato."
Parole potenti, che raccontano un pensiero nobile. Tuttavia, Cassirer (1874–1945) ha vissuto esattamente negli stessi decenni in cui emergevano Freud (1856–1939) e Jung (1875–1961), e ha scelto di non confrontarsi mai con la questione dell’inconscio. Nessuna apertura alla dimensione profonda, simbolica e disordinata che pure si è rivelata centrale nella cultura e nell’arte del Novecento.
È questo, forse, il suo limite. E imitarlo oggi, senza quel confronto, significa mettere i paraocchi.
Il mio concetto di Timing Riflettente nasce anche da una rielaborazione personale del Timing teorizzato dal critico e professore Sergio Bettini (1905–1986). Scrivo nel mio testo:
"Il Timing Riflettente non è un cronoprogramma né un semplice intervallo di riflessione, ma la dimensione in cui l’inconscio dialoga con la materia e ne modella la forma in un unico atto."
Non si tratta di negare la funzione. Ma di riconoscere che esiste una forma di progettazione che nasce non dalla separazione tra idea e costruzione, ma da un gesto unico, in cui forma e spazio si generano simultaneamente.
E qui torno a lei. Perché nei suoi racconti, nei sogni, nei riferimenti letterari e ironici, lei non sembra affatto dogmatico come a volte appare nel suo modo di inquadrare l’architettura. La sento aperto, curioso, capace di attraversamenti imprevisti. Ippolito Settanta forse non era un’allucinazione, né una minaccia. Forse era un piccolo richiamo onirico a lasciare spazio anche a ciò che non è forma né funzione, ma qualcosa che si muove tra le due.
Come ho scritto nel mio saggio, con una certa critica anche nei confronti di un’IA che ci sta privando del gesto primordiale umano della creazione:
"Plasmare, gonfiare, incidere e consolidare in un unico flusso creativo. Così la materia non resta oggetto, ma diventa luogo, memoria e futuro, restituendoci l’architettura come gesto primordiale di creazione e rifugio per il corpo e l’anima."
Con stima, provocazione, un pizzico di sogno
e forse sincronicità:
Forse Ippolito Settanta,
sicuramente Federico Babbo
3 giugno 2025 Puglisi: Arte e architettura
L’architettura non soffre oggi di un eccesso di arte ma di mancanza di riflessione artistica. E’ un errore pensare infatti che l’attuale eccesso di carattere scultoreo in architettura abbia qualcosa a che vedere con l’arte ( tanto è vero che oggi nell’arte si fanno poche sculture pensate come semplici oggetti plastici). Invece, se l’architettura avesse più a che vedere con l’arte, sarebbe più sottile, più intelligente e sicuramente meno scultorea.
MIO commento a questo post di Puglisi:
Voi tecnici e critici, se continuerete a vedere la scultura come qualcosa di chiuso in se stessa e non come architettura, non stupitevi quando arriverà il Cavallo di Troia. Perché questa volta non sarà solo una scultura, ma uno spazio abitato dai vostri peggiori nemici: gli artisti-architetti. 🐴🙈🙉🙊😄😉🤪😘
31 maggio 2025 Puglisi: Leggi della forma
Il fatto che per Hadid non ci sia differenza sostanziale tra un vaso e un grattacielo vuol dire che le leggi della forma sono per lei tanto forti da prevalere su quelle della funzione. Per noi funzionalisti si tratta di un assunto difficile da accettare, ma su questa per noi eresia - non nascondiamocelo- si basa almeno metà della architettura, e non parlo solo di quella contemporanea, che amiamo.
31 maggio 2025 Puglisi: Non mi ha mai convinto l’idea che si possa vivere nella geometria pura. La geometria pura è priva di vita, di imperfezione, di sensualità. Per essere interessante deve trovare un corpo in cui nascondersi e rivelarsi. Come l’intelligenza: quando è pura è mostruosa.
MIO COMMENTO: Potrei condividere il sospetto verso la geometria pura, ma ovviamente sto ben attento a non demonizzare quella geometria essenziale che, unita al gesto, ha generato architetture sublimi.
La vera mostruosità non è nella forma pura, ma nella forma sterilizzata dai software e non dalla nostra mente.
Oggi si pensa che modellare significhi solo disegnare nodi su Grasshopper, infischiandosene dell’intuito e del gesto istintivo, spesso rapido e inconscio.
Tutto ciò mi fa immediatamente pensare a un mio breve e recente saggio, dove ho ipotizzato un metodo futuro per fondere architettura e scultura. Quasi un salto di scala: dalla scala manuale a quella umana.
Mi sono ispirato ai maestri vetrai di Murano per l'architetto del futuro: plasmare la materia a mano, poi gonfiarla fino a scala architettonica. Questo manterrebbe sicuramente vivo il gesto originario.
Un modo per opporsi alla deriva algoritmica, guardando a un futuro vicinissimo, ridando centralità al gesto e a quella espressione personale che resterà intrisa nella stessa materia.
Peccato che la maggior parte degli architetti contemporanei sembri priva della visione e della sensibilità necessarie, incapaci di superare una formazione che ha smarrito le discipline artistiche e il pensiero critico, preferendo software e normative bigotte all’espressione personale.
Forse perché è più comodo obbedire a un algoritmo che affrontare la responsabilità di un’idea e la consapevolezza della propria incapacità di averne di rivoluzionarie.
Ho voluto dare un nome a questa espressione: ARS FULGOR BRUTUM, una scintilla grezza e potente da cui ripartire, la scintilla dell’arte.
Non cosa per tutti, mi rendo conto: non bastano esperienza e non servono raccomandazioni per fare arte.
Lei sta in piedi da sola, come un processo intellettuale autocritico sulla propria opera.
per chi volesse approfondire ci sono anche altri miei scritti sul blog, pochi, anche datati ma coerenti con questa visione.
11 aprile 2018 post di Puglisi: Ippolito Settanta
Il cervello è una macchina pazzesca per produrre avvertimenti, anche e, forse, soprattutto quando si dorme. Stanotte ho sognato un progettista che nella vita reale mi manifesta ostilità accusandomi di non aver capito il suo valore ( e difatti è, a mio avviso, una mezza calzetta). Era con un collega di nome Ippolito Settanta. Non ci vuole Freud a capire che “ippo” sta per cavallo e “lito” per pietra. Era un cavallo di Troia così come lo può progettare un architetto reazionario, un avvertimento che rafforzava la mia idea che lui fosse uno jettatore (naturalmente non ci credo, ma, come diceva Benedetto Croce, meglio premunirsi) oltre che un figlio di puttana ( “addio Troia fumante”, come si dice scherzando) pronto ad andare con il migliore offerente. Settanta stava per “setta” e anche per molto (“settanta volte sette” della Bibbia) oltre che per un periodo non particolarmente felice per l’architettura italiana. Insomma un allarme in piena regola, anche se delirante, mandatomi dal cervello: fai attenzione, stai lontano da lui. Mi meraviglia sempre quanto sia raffinato e schizzato il linguaggio dei sogni.”
Le testimonianze condivise da Puglisi rivelano un apparente paradosso: da un lato, una teoria della forma e della funzione saldamente radicata nel neokantismo di Ernst Cassirer (1874–1945); dall’altro, improvvise incursioni nel simbolico e nell’onirico, che però non trovano spazio nella sua cornice metodologica.
Cassirer, pur avendo elaborato una filosofia delle forme simboliche, evita ogni confronto con la dimensione dell’inconscio, nonostante Freud (1856–1939) e Jung (1875–1961), suoi contemporanei, ne abbiano sondato l’importanza scientifica, culturale e artistica. Il valore delle loro ricerche è oggi riconosciuto e ampiamente sviluppato, tanto da non richiedere ulteriori dimostrazioni.
La domanda, allora, è inevitabile: com’è possibile che l’inconscio venga sistematicamente escluso dall’approccio all’arte, e soprattutto all’architettura, spesso in nome di una “funzione” cara proprio a Cassirer?
Puglisi stesso, nel post del 31 maggio, si definisce funzionalista. Parlando di Zaha Hadid, sfrutta con astuzia l’occasione per confrontare forma e funzione, ironizzando sul fatto che per lei la differenza tra un vaso e un grattacielo è quasi inesistente. Ammette che metà dell’architettura, contemporanea e non, si basa su questo tipo di formalismo.
Tuttavia, pur registrando un dato non trascurabile, non prende posizione. Si limita ad autodefinirsi funzionalista, lasciando in sospeso ogni tentativo critico di superare quel paradigma.
Il limite di un’estetica monca si manifesta anche in molti corsi universitari di estetica, talvolta di alto profilo. Si pensi, ad esempio, alla Prof.ssa Ivana Randazzo, autrice di Immaginazione creatrice: dal primitivo al simbolico, che continua a proporre Cassirer come unico riferimento per spiegare il concetto di “immaginazione creatrice”.
Nell’abstract del suo lavoro, l’immaginazione viene descritta come «funzione primaria da cui si sviluppa il processo di astrazione». Tuttavia, questa astrazione, priva di una riflessione sull’inconscio, rischia di ridurre l’esperienza estetica a una teoria simbolica eccessivamente chiusa e formalista, incapace di rendere conto dell’origine pulsionale e non-razionale della creazione artistica.
Prendiamo ora in esame una delle affermazioni della Randazzo, che si riferisce ancora esplicitamente al pensiero di Cassirer:
“Affinché si possa realizzare il processo di astrazione, che contraddistingue
l’essenza umana, è necessario che l’uomo vada oltre i dati sensoriali di tipo visivo, tattile, uditivo, cinestetico. In questa trasformazione dalle forme sensoriali a quelle significative si realizza il processo di oggettivazione, come mostrano, in particolar modo, il linguaggio e l’arte, quando nel flusso della coscienza alcune forme permangono sempre uguali: “nessuna di queste forme si risolve puramente e semplicemente nell’altra o si lascia dedurre dall’altra, ma ciascuna di esse designa un modo determinato di
concepire spiritualmente, nel quale e mediante il quale costituisce ad un tempo un aspetto specifico del ‘reale’” (Cassirer 1961, p.10).”
Il processo di astrazione viene presentato come trasformazione di forme sensoriali, come se le uniche modalità percettive fossero quelle legate ai sensi: visive, tattili, uditive, cinestetiche. Si omette completamente la dimensione mentale e onirica, quella archetipica, relegando la potenza dell’immaginazione a una funzione riduttiva della coscienza razionale.
La riflessione privilegia il flusso della coscienza, ma ignora l’inconscio. La dimensione onirica viene aggirata con una dichiarazione che sembra liquidarla in modo grottesco e disinvolto:
“L’immaginazione dell’artista non è da considerarsi come un sogno o una visione, perché dal sonno o dall’ebbrezza non potrebbe sorgere nulla di organico, mentre l’opera d’arte è contraddistinta da una ‘unità strutturale’.”
Ma davvero il sogno non ha struttura? Se lo viviamo e lo ricordiamo, se ci restituisce immagini e emozioni coerenti, allora possiede una forma che regge. Non si tratta di negare il valore della strutturazione artistica, bensì di riconoscere che l’inconscio e il sogno non si oppongono alla struttura, ma la rigenerano dall’interno. Perciò, pur apprezzando la nobiltà del metodo astrattivo, non posso condividere questa esclusione. La mente non si depura degli archetipi attraverso l’astrazione; al contrario, viene da essi contaminata, nutrita, amplificata.
Un’altra affermazione di Cassirer, riportata dalla stessa Randazzo nel suo abstract, mette in evidenza il ruolo centrale della funzione nel pensiero cassireriano, a cui sembra ispirarsi anche la riflessione di Puglisi. Riporto la citazione per chiarire meglio:
“L’essenziale non sono i mattoni e le pietre usate per costruire ma è la loro funzione generale in termini architettonici. Nel campo del linguaggio ciò che vivifica i segni materiali e che ‘li fa parlare’ è la loro funzione generale simbolica. Senza questo elemento vivificante, il mondo umano resterebbe invero sordo, muto e cieco. Per contro se esso è presente, anche il mondo di un bambino sordo, muto e cieco può divenire incomparabilmente più vasto e più ricco del mondo dell’animale più sviluppato (Cassirer 2004, p. 96).”
Ciò che qui non viene preso in considerazione è che anche gli animali sognano, e questo implica una dimensione simbolica fondamentale per il loro sviluppo. Ridurre il valore dell’arte al solo principio di astrazione non è sostenibile, mentre una forma d’astrazione contaminata dall’inconscio può forse avvicinarsi di più alla creazione autentica. Attribuire valore a un’opera solo per la sua struttura o composizione significa scivolare nell’idea che ornamento e decorazione siano già di per sé arte, richiamando provocatoriamente il pensiero di "Ornamento e delitto" di Adolf Loos. La mia esperienza personale mi porta a testimoniare che, in alcuni dipinti, ho percepito una chiara contaminazione dell’inconscio, provata dal fatto che mi abbiano restituito sincronicità anche a distanza di anni. Solo nel sogno e nell’atto creativo si manifesta una curvatura dello spazio-tempo, e questo fenomeno diventa occasione per riflettere non solo sull’arte, ma sulla natura stessa della creazione. Dal punto di vista scientifico, l’entanglement quantistico è stato proposto come modello analogico per spiegare la sincronicità, come discusso da Jung e Wolfgang Pauli. Esistono teorie come l’informazione implicita di David Bohm, il campo morfico di Rupert Sheldrake, e la retrocausalità sostenuta da Yakir Aharonov. Questi temi, pur esulando dal mio trattato, non fanno che rafforzare il mio intento: mettere in luce l’eccessiva ortodossia degli insegnamenti accademici sull’estetica, che troppo spesso ignorano prospettive profonde e generative come l’archetipo, il sogno, e l’inconscio.
Per provocazione potrei anche chiedermi: perché Puglisi si definisce funzionalista nel criticare l’architettura, senza dare importanza al lato archetipico e inconscio della composizione delle forme e quindi dello spazio, per poi invece parlare pubblicamente e ironicamente di un suo sogno? Se volessimo davvero tirare in ballo Freud, ci sarebbe da sbizzarrirsi nella critica verso l’opera di certi artisti e architetti. Si potrebbe persino psicoanalizzare il concetto di “cuginanza” espresso da Puglisi, trovando probabilmente rilevanze sorprendenti sulle loro personalità.
Dopotutto, l’arte è autenticità, è esposizione totale. L’artista e l’architetto lo sanno da sempre: creare è anche esporsi, è correre il rischio.
31 maggio 2025, Puglisi: "L’arte a volte è la cugina allegra della pornografia."
Mio commento: "qualche foto dell’opera di Brancusi o semplicemente la foto di 'Tu si na cosa grande' di Gaetano Pesce forse avrebbe sottolineato meglio il concetto da lei espresso: della cuginanza."
Tornando ai post di Puglisi di qualche giorno fa, il 25 luglio 2025, cercavo un mio vecchio commento, quello del 3 giugno 2025, dove evocavo il Cavallo di Troia per descrivere l’irruzione dell’artista-architetto in un panorama troppo chiuso sul tecnicismo. Scrivo “Cavallo di Troia” nella barra di ricerca della pagina Facebook di Puglisi e… ecco che riaffiora anche un suo post del 2018: il sogno di Ippolito Settanta, accompagnato dall'immaginde della scultura del cavallo in legno che prese Troia.
Non era una rivelazione, ma una piccola sincronicità. Quel sogno onirico, tra cavalli, pietre e archetipi, si incrocia col mio pensiero, senza preavviso. Così il 25 luglio lascio un commento teatrale: “Forse Ippolito Settanta, sicuramente Federico Babbo.”
Poi succede un ulteriore imprevisto. Solo scrivendo in questo momento, mi accorgo che il nome Settanta contiene “lito” — la pietra — e che quella parola coincide esattamente con una citazione di Cassirer:
“Non sono le pietre in sé, ma la loro funzione generale in termini architettonici…”
E qui scatta la critica... e allora forse Cassirer aveva ragione… ma per occasione fortuita.
Perché la funzione, quella vera, è nascosta. È una funzione sospesa.
Un messaggio che rimane in attesa — ma comunque arriva in maniera sincronica, ma arriva.
Quando non la cerchi, quando pensavi di aver chiuso.
E quando arriva, non serve. Trasforma.
Da questo fatto è nata ancora più voglia di sviluppare un saggio e quindi per aggiungere benzina al fuoco ho trovato illuminanti alcune parole del filosofo Pier Aldo Rovatti.
Vi riporto per intero l’intervita di Rovatti trascritta da me guardando quella video su Rai Cultura:
“Mentre Freud riporta il sogno a un livello barrato a un livello che si autosbarra, che si fa vedere per scorci, quello che per Jung si vede nel sogno è un mondo di immagini o di archetipi per introdurre altri termini che sono in termini chiave di Jung. Non e che Jung rifiuta la razionalità Jung teme che ci sia lo scompenso a livello individuale a livello di società a livello di cultura addirittura, il momento culturale tra, come dire, il momento razionale coscienziale e il momento invece quello che noi non possiamo non dobbiamo controllare. E questo elemento che non possiamo non abbiamo controllare certamente Jung lo chiama inconscio. In sostanza, c'è per Jung una parte di noi che noi ci portiamo appresso che non soltanto noi individualmente ci portiamo appresso, ma che la società e le culture si portano appresso e questa parte noi non possiamo ne farla diventare preponderante, in modo che ci, come dire, inghiotta né pensare di diventare noi preponderanti con la nostra lucidità con la nostra consapevolezza col nostro progetto razionale, riguarda queste parti. Per cui il problema che ha Jung è certamente poi alla fine sintetizzabile nelle parole equilibrio e compensazione. Fra queste due parti, che adesso però bisognerebbe anche vedere e illustrare meglio. Per IO Jung intende la coscienza che sa di essere coscienza, quindi l'aspetto di ciascuno di noi, quella con cui magari riusciamo a vivere, per cui noi siamo qua e ciascuno pensa di essere qua sapendo di essere qua, sapendo di essere se stesso padroneggiando la situazione e quindi auto governandosi insomma per l'aspetto per cui noi magari riusciamo a stare al mondo, no?! E che è l'aspetto secondo il quale perché a Jung non è sufficiente, cioè Jung dice se noi ci limitassimo a questo se noi assecondassimo il progetto culturale (quindi è abbastanza anticipatorio rispetto a certe poi posizioni critiche dibattiti che ci sono stati dopo) il periodo culturale, secondo il quale, come dire, si deve lavorare sempre di più a vantaggio di questa consapevolezza e padronanza lucidità trasparenza, bene noi ci metteremmo nei guaio dice Jung, perché noi avremmo tagliato via tutto l'aspetto che invece non è controllabile, è che non solo rimanga l'aspetto non controllabile, ma diventati l'aspetto non controllabile in nessun modo. Cioè non ci aspettiamo neppure che produca degli effetti, come se, facciamo un esempio, nel momento in cui io per tutta la mia esistenza mi esercito alla chiarezza autoconsapevole alla trasparenza e a quel punto mi accorgessi di avere di essere invece caricato dietro le spalle un sacco in cui ho messo via via tutte le cose che rifiutavo, tutte le esclusioni che io esercitavo confidando della mia lucidità della mia auto consapevolezza ecco che a un certo punto questo sacco, che ho cominciato a riempire fin da bambino, quando i genitori mi dicevano non fare quello, allora io magari non facevo quello, che mettevo dentro un sacco. Poi a scuola abbiamo detto altre cose che non dovevo fare e io mi sono convinto che non dovevano farle e mettetevo dentro il sacco e diventato grande, sempre più grande, sempre più... e a un certo punto il sacco ci fa cadere. Se Jung ci insegna qualcosa, ci insegna la possibilità di ospitare questo elemento che possiamo chiamare ombra per dire una parola che tiene insieme tante cose e che è quel qualche cosa che alla lettera insomma noi non conosciamo perché prendiamo in considerazione non devi conoscerlo, il conoscere l'ombra vuol dire appiattire, bruciare l'ombra, annullarla e l'ombra cresce. Per esempio un'altra cosa che la filosofia ci mette dentro il sacco è tutto ciò che ogni volta la filosofia pretendere avere eliminato, quando per esempio di eliminare il condizionamento razionale, il cosiddetto negativo, il cosiddetto accidentale, il cosiddetto casuale tutto ciò che non rientra come dire della progetto dominante del pensiero. Quindi anche il pensiero ha un suo sacco che si appesantisce sempre di più. “ (da video intervista Rai Cultura - Jung, l`Io e l`inconscio - gennaio 2019 - Pier Aldo Rovatti )
Il discorso riportato non si limita alla sfera psichica individuale, ma si espande come potente metafora dell’estetica e della cultura. L’ombra che Pier Aldo Rovatti descrive è l’elemento costantemente escluso dalla coscienza e dalla teoria. Una parte silenziata, rimossa, ma che non smette di crescere.
Allo stesso modo, l’estetica dominante tende a espungere tutto ciò che non rientra nella logica della padronanza e del controllo: il notturno, il sincronico, il gesto che sfugge alla forma prestabilita. Si privilegia la costruzione razionale del simbolo, trascurando le dinamiche profonde della psiche che animano davvero l’opera.
L’intervista di Rovatti, “Cos’è l’inconscio per Jung”, dimostra che il riconoscimento delle pulsioni inconsce non è più un tabù. Eppure, nell’accademia, le facoltà di estetica, storia dell’arte e architettura sembrano ancora impermeabili. Si persiste nell’idealizzare la lucidità e la trasparenza come uniche forme legittime del pensiero creativo, negando che l’opera viva anche, e forse soprattutto, nel non detto, nel rimosso, nel sacco che ci accompagna.
Nel mio saggio "Può esistere una continuità tra scultura e architettura" (15 maggio 2025), affronto la questione partendo da un gesto artigianale: quello dei vetrai di Murano che, soffiando il vetro, imprimono torsioni e pattern ai loro vasi. È proprio da questa azione che immagino un’estensione verso l’architettura gonfiabile, plastica ma abitabile. Propongo l’impiego di nuovi materiali e tecniche pneumatiche per generare volumi cavi che uniscano gesto e spazio, richiamando in qualche modo l’esperienza radicale di Haus-Rucker-Co o le installazioni immersive di Anish Kapoor.
Questa ricerca nasce da un’urgenza profonda: dar vita a spazi simbolici che siano estensione del corpo, inconsci resi visibili, manifestazioni fisiche e forse inconsapevoli della psiche.
Nella teoria dell’AFB — Ars Fulgor Brutum — definisco Ars fulgor come lampo primordiale, Brutum come materia grezza. Il Timing Riflettente, che riprendo solo in parte dal concetto di Timing elaborato dal critico e storico dell'arte Sergio Bettini (1905–1986), rappresenta quel momento liminale in cui l’inconscio dialoga con la materia in un unico atto creativo. Come affermo nel testo:
"La rapidità con cui un segno si trasforma in forma d'arte o architettonica sollecita una riflessione cruciale sul rapporto tra intuizione e cultura, ma soprattutto sulla necessità di un timing riflettente. Con questo termine si intende un tempo che, da un lato, permette di ponderare riflessivamente le scelte e, dall’altro, riflette come uno specchio il contenuto del nostro inconscio, rendendo evidente il legame profondo tra intuizione e consapevolezza critica. La creazione, infatti, non può ridursi a un processo impulsivo, svincolato dal tempo necessario per sedimentare e interrogarsi sul significato profondo dell’opera. È in questo intervallo che l’autore esercita una coscienza riflettente, intesa come il ponte tra intuizione e consapevolezza critica. Se nella visione junghiana la riflessione è lo specchio del Sé, qui essa diventa un atto trasformativo: una lente attraverso cui l’autore non si limita a osservare, ma riorganizza e affina il caos intuitivo, trasformandolo in un gesto carico di significato. Questa coscienza riflettente verifica non solo l’efficacia estetica, ma anche il valore simbolico, sociale e culturale di un’opera, guidando l’intuizione verso una forma consapevole, capace di dialogare con il mondo... La tecnologia, che offre all'architetto o artista la possibilità di agire in modo istintivo, rischia di accelerare eccessivamente questo processo, privandolo di quella ponderazione che conferisce senso e spessore al gesto creativo. Senza una interpretazione consapevole, il rischio è che le opere architettoniche e artistiche diventino meri esercizi di stile, incapaci di dialogare con il contesto culturale e storico in cui si inseriscono. È dunque necessario uno slancio critico che integri intuizione e cultura, consentendo a tutta l'arte di elevarsi oltre il tecnicismo e la moda passeggera, evitando anche la proliferazione di costruzioni prive di anima, simili a quelle cementificazioni senza identità che spesso vediamo oggi."(da VERSO UNA CRITICA DELLA FORMA E DEL TEMPO- 25 febbraio 2025 -Federico Babbo)
Ricondivido perfettamente queste parole, ponendo particolare accento sulla parte finale: quando parlo di “cementificazioni senza identità”, intendo riferirmi a interventi estremamente funzionalisti, talmente funzionalisti da risultare ottusi, privi di sensibilità e di coscienza estetica. È qui che emerge con forza la mia vicinanza al pensiero di William J. R. Curtis, ancora incredibilmente affine al panorama contemporaneo e alla mia visione critica.
William J. R. Curtis, nella sua analisi narrativa, ha evidenziato con grande lucidità la deriva che interessò proprio in quel periodo il passaggio dall’architettura agli ambiti dell’edilizia generica, in particolare quella residenziale e commerciale:
“ si assistette tuttavia al trionfo di una banale formula internazionale. L'ottuso riduttivismo che ne risultò era una caricatura dell'appassionata semplicità dei lavori seminali d'architettura moderna. La disciplina funzionalista venne confusa con gli scopi strumentali della proprietà immobiliare; le burocrazie impegnate nella pianificazione fecero proprie immagini tabula rasa della città moderna e le applicarono con un senso di certezza fiducioso, moralizzante e stupido; quello che era cominciato come un sogno urbano alternativo venne assorbito da uno status quo eccessivamente monotono.” (da l'Architettura moderna dal 1900- William J. R. Curtis)
Il problema è culturale e formativo, poiché se i critici non entrano in dialogo con l’inconscio e con i linguaggi ibridi degli artisti, finiranno per restare chiusi in comparti stagni. Il risultato? Un’estetica sterile, incapace di interpretare le sincronicità dell’arte, i suoi salti logici, le sue visioni laterali. Ma forse l’arte è proprio questo, un cavallo di Troia inarrestabile.
Per questo è giunto oltremodo il momento di spostare il ruolo del critico da giudice a facilitatore, o maestro. Una figura che sappia unire la competenza storica e formale a strumenti psicoanalitici, ma anche al fare pratico, mettendosi in gioco con autenticità e diventando egli stesso artista o architetto. Solo teoria e cultura non hanno mai costruito l’arte, e sono certo che una mente poco attenta e con poca cultura abbia scarse possibilità di sviluppare la propria ricerca artistica. Credo che solo grazie a un facilitatore o maestro potremo promuovere un’estetica davvero inclusiva, capace di valorizzare tanto la forma simbolica quanto l’irrazionale pulsionale, favorire collaborazioni e scambi culturali, creare laboratori in cui gesto artigianale e riflessione inconscia coesistano sempre più implicitamente, ma possano anche essere meglio dedotti e approfonditi.
La scultura non deve restare confinata in un guscio formale, può diventare architettura e viceversa, spazio abitabile e simbolo corporeo e formale allo stesso tempo. Come accade in architettura nel riqualificare e restaurare una vecchia scatola di pietre vuota, conferendole nuova funzione, penso al grande esempio di architettura e restauro di Carlo Scarpa a Castelvecchio, perché non si dovrebbe installare il germe della funzione anche in un involucro gonfiato, scavato e inciso simbolicamente nel momento in cui l’interno è già immaginato?
Per fare arte e non semplice ornamento, si deve attraversare sempre la soglia dell’inconscio, mettersi in gioco, assumerne le ferite, gli archetipi, anche le sincronicità se necessario, tutto. Qui ritorna il concetto dell’Unus Mundus e della creazione come riconnessione. “L’Unus Mundus è il principio junghiano che postula un’unità originaria della realtà, un substrato profondo in cui psiche e materia coincidono. Così come nei miei dipinti ogni segno, ogni graffio sul supporto diventa una forma di dialogo tra il mio inconscio e la materia pittorica, un tentativo di portare alla luce qualcosa che esiste già, ma in uno stato di latenza. L’atto artistico diventa così un’operazione alchemica, un processo di trasformazione che emerge dallo scontro tra l’istinto primordiale e la struttura finale che lentamente si deline...
Il motto Ars Fulgor Brutum non è solo un’espressione, ma un manifesto. Ars (arte) non è qualcosa di preordinato, ma un’esplosione di energia che prende forma da un significato ontologico. Fulgor (il lampo) rappresenta l’illuminazione improvvisa, il momento in cui l’idea emerge come una rivelazione travolgente e inarrestabile. Brutum (il primitivo) è l’istinto incontaminato che si manifesta senza filtri, senza giustificazioni razionali.
Questo motto si oppone a ogni creazione artistica ingabbiata in regole preconfezionate. È un’arte che nasce dall’urgenza espressiva, che prende forma rapidamente con mezzi poveri, un’arte che accoglie l’imprevisto e l’errore come parte essenziale del processo. In questo senso, AFB non è solo una filosofia creativa, ma un atto di ribellione contro la sterilizzazione dell’arte. È la celebrazione del gesto istintivo, del segno che graffia, scava, trasforma e infine trova il suo equilibrio nel caos. Celebra quel gesto proprio degli artisti che, nati con tale capacità, possono decidere se usarla o disfarsene”( da AFB - ARS FULGOR BRUTUM: l'arte impressa nello spazio-tempo come lampo primordiale o eco dell’origine-17 marzo 2025 – Federico Babbo)
Allora alla fine di tutto questo discorso PUO' ESISTERE UNA CONTINUITA' TRA SCULTURA E ARCHITETTURA?
“Molti ne hanno discusso in termini formali o simbolici, ma esiste una via concreta che affonda le radici nel gesto manuale e nell’esperienza diretta della materia, restituendo all’architettura lo stesso valore primordiale della scultura. Un’architettura che non nasce da un disegno o da un progetto a tavolino, ma da un atto artigianale in cui forma e spazio si generano simultaneamente. Immaginiamo i maestri vetrai di Murano intenti a soffiare il vetro incandescente, imprimendo torsioni, pressioni e pattern sulla massa fluida. L’oggetto che ne nasce non è mai astratto: è frutto di un tempo, di un ritmo, di una manualità e di un soffio controllato che coincidono con la forma e la custodiscono nella pelle trasparente... Se il vetraio soffia un bicchiere, l’artista del futuro gonfia un’architettura. Con strumenti pneumatici che dosano pressione e ritmo, la materia si dilata assumendo una geometria autonoma. Quando l’indurimento fissa la forma, l’opera non è più un oggetto ma uno spazio: un rifugio, un luogo mentale, un’architettura." (da PUO' ESISTERE UNA CONTINUITA' TRA SCULTURA E ARCHITETTURA?- 15 maggio 2025 – Federico Babbo)
Ciò che è certo è che solo così l’arte e l’architettura potranno esprimere appieno la complessità dell’esistenza umana e non solo tramite la funzione o la simbologia.
Federico Babbo
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