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PUO' ESISTERE UNA CONTINUITA' TRA SCULTURA E ARCHITETTURA?

  • Immagine del redattore: Federico Babbo
    Federico Babbo
  • 15 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 16 mag




Molti ne hanno discusso in termini formali o simbolici, ma esiste una via concreta che affonda le radici nel gesto manuale e nell’esperienza diretta della materia, restituendo all’architettura lo stesso valore primordiale della scultura. Un’architettura che non nasce da un disegno o da un progetto a tavolino, ma da un atto artigianale in cui forma e spazio si generano simultaneamente.


Immaginiamo i maestri vetrai di Murano intenti a soffiare il vetro incandescente, imprimendo torsioni, pressioni e pattern sulla massa fluida. L’oggetto che ne nasce non è mai astratto: è frutto di un tempo, di un ritmo, di una manualità e di un soffio controllato che coincidono con la forma e la custodiscono nella pelle trasparente. Se quel medesimo gesto venisse applicato a materiali contemporanei (resine termoindurenti, polimeri espandibili, siliconi a memoria elastica o a nuovi materiali innovativi ed ecocompatibili) e se, anziché fermarsi a un vaso o a una scultura, l’artista inducesse un gonfiaggio pneumatico controllato fino a dimensioni abitabili, il risultato diverrebbe un involucro stabile, un volume cavo che concentra in sé ogni piega, ogni incisione, ogni graffio.


Se il vetraio soffia un bicchiere, l’artista del futuro gonfia un’architettura. Con strumenti pneumatici che dosano pressione e ritmo, la materia si dilata assumendo una geometria autonoma. Quando l’indurimento fissa la forma, l’opera non è più un oggetto ma uno spazio: un rifugio, un luogo mentale, un’architettura.


Il Mobile Art Pavilion di Anish Kapoor e Arata Isozaki ha esplorato questa potenzialità con un’architettura gonfiabile concepita per eventi effimeri, montabile e smontabile. In quel progetto il gesto è diviso: l’artista e l’architetto collaborano, alternandosi tra idea e calcolo. Nel modello che propongo, invece, l’intervento è un atto singolo, compiuto da un unico soggetto. Ogni piega, ogni sfumatura di pressione, diviene firma inconfondibile dell’artista-architetto, trasferendo autenticità e identità nella materia.


Questo metodo trova eco nella tradizione radicale viennese di Haus-Rucker-Co e nella loro Oase No. 7 (1972), bolla gonfiabile che emergeva da un edificio storico a Kassel per Documenta 5. Era un’architettura temporanea e immersiva, un dispositivo ludico-ambientale. Liberata dall’utopia preconfezionata, quella bolla si rivelava una forma-luogo: una scultura abitabile che imponeva una nuova esperienza sensoriale. Oggi, se il restauro filologico sembra spesso un esercizio noioso e tecnicistico, interventi analoghi potrebbero arricchire il patrimonio storico con inserti artistici chiaramente distinguibili per materia e linguaggio. Bolle trasparenti o forme nuvolate simili a quelle di Fuksas potrebbero dialogare con facciate di palazzi antichi, generando nuovi spazi di contemplazione senza tradire né l’antico né il contemporaneo.


In questo contesto risultano centrali i concetti cardine elaborati in «AFB – Ars Fulgor Brutum»: Ars fulgor come lampo primordiale che accende l’intuizione, Brutum come materialità grezza e incontaminata, Timing Riflettente come tempo corporale in cui l’impulso sedimentato esplode in gesto plasmante. Il Timing Riflettente non è un cronoprogramma né un semplice intervallo di riflessione, ma la dimensione in cui l’inconscio dialoga con la materia e ne modella la forma in un unico atto. Senza questa sincronizzazione interiore, il gesto resta cieco, privo di quella forza che lo rende immediatamente riconoscibile e carico di significato.


La percezione della scala racconta un ulteriore capitolo di questa storia. Da bambini un palloncino a forma di cane ci appariva gigantesco, scolpito nella memoria come icona di gioco; da adulti ritroviamo quei balloon dog di Jeff Koons in acciaio specchiante e dimensioni monumentali. Quella deformazione di lattice non è solo un aumento di scala, ma la fissazione di un ricordo emotivo. Il gonfiaggio di Koons cristallizza l’archetipo infantile, trasformando l’effimero in monumento. Allo stesso modo, il futuro artista-architetto gonfia la materia fino a renderla spazialmente pertinente, pur conservando l’impronta emotiva e gestuale del processo.


Anche l’opera di Edoardo Tresoldi nella basilica paleocristiana di Siponto parla a questa continuità: una rete metallica capace di definire con leggerezza i volumi originari di un edificio storico, restituendone la presenza senza sostituirne la materia. L’intervento non ricrea pietra, ma ridisegna il vuoto, trasformandolo in spazio attivo. Come la bolla gonfiabile, come la rete di Tresoldi, come le lacerazioni di Burri e i wrappings di Christo, l’architettura-scultura diventa evento da attraversare, non oggetto da contemplare. Burri, con le sue Plastiche bruciate, mostra come il materiale accolga il fuoco e poi il soffio, imprimendo cicatrici che parlano del gesto. Christo avvolge monumenti e paesaggi, non per nasconderli, ma per rivelarne la forma con maggior evidenza. Questi esempi convergono nella pratica che propongo: modellare, gonfiare, incidere e consolidare in un unico flusso creativo.


Nel mio pensiero devo constatare che gran parte dei musei, intesi come luoghi, sopratutto quelli minori, oggi respingono le mie opere pittoriche e materiche perché riducono chiaramente l’arte a oggetto esposto. Il museo rischia di divenire mero contenitore sterile. Se però la materia diventa luogo, l’opera prende il posto del contenitore. Le "installazioni gonfiabili" non nascondono l’opera entro vetrine, ma la fanno divenire spazio mentale e fisico. Un museo del futuro potrebbe trasformarsi in un ecosistema di volumi gonfiati e stabilizzati, che dialogano con l'esistente in un percorso di Ars fulgor brutum e Timing Riflettente che educa il visitatore a un’abitazione attiva dello spazio e dell'arte. La stessa arte diventa museo.


Nel solco di «Verso una critica della forma e del tempo», in cui si sottolinea il rischio di un’arte e di un’architettura accelerate dalla tecnologia, prive di ponderazione, qui si propone invece un equilibrio instabile, necessario tra intuizione, autocritica, praticità e soggettività artistica. Non basta creare in fretta: serve uno slancio critico, richiesto dal Timing Riflettente, che verifica non solo l’efficacia estetica ma il valore simbolico, sociale e culturale dell’opera.


Il gesto critico, allora, non è quello che giudica, ma quello che ascolta.

E soprattutto: il primo vero atto critico è l’autocritica.

Non come esercizio di colpa o di prudenza, ma come disponibilità radicale a essere smentiti da soli, dalla propria opera, dal tempo, o dagli altri. È questa la condizione necessaria per accogliere ciò che l’opera può diventare oltre le nostre intenzioni. Lasciarle il diritto di avere ragione dopo. O altrove.


In questo quadro, la domanda iniziale cambia. Soprattutto non si tratta più di distinguere “i furbi dai geni”, perché il vero discrimine non è morale ma ontologico: è la capacità dell’opera di generare mondo, di curvare lo spazio-tempo della percezione, di “fare esperienza dell’esistenza” (come scrive Heidegger). E questo può avvenire anche in opere non canonizzate, non celebrate. La storia dell’arte ufficiale è spesso cieca alla potenza sincronica.


In conclusione, questa architettura-scultura non è un esercizio teorico, ma un metodo operativo che riconnette artigianato, progetto e costruzione. Implica un solo gesto unitario: plasmare, gonfiare, incidere e consolidare, trasferendo nella materia i simboli chiave e restituendo spazio alla presenza viva dell’opera. Così la materia non resta oggetto, ma diventa luogo, memoria e futuro, restituendoci l’architettura come gesto primordiale di creazione e rifugio per il corpo e l'anima.

 
 
 

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