AMBIGUITÀ TRA ARTE E ARCHITETTURA
- Federico Babbo
- 9 lug 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 6 giu 2024
Amo la complessità e la contraddizione in architettura... basate sulla ricchezza e sull'ambiguità dell'esperienza moderna, compresa l'esperienza inerente all'arte... Gli architetti non possono più permettersi di lasciarsi intimidire dal linguaggio moralmente puritano dell'architettura moderna ortodossa...
Robert Venturi 1966
C'è chi si lascia ancora intimidire... quasi tutti... ma io credo che oggi non esista più in architettura quell'esperienza legata all'arte... e non è neppure ortodossia nei confronti dell'architettura moderna... magari lo fosse io oggi li definirei tutti agnostici, per la loro incapacità di sentire e di creare. Sono tutti proiettati verso il pensiero consumistico e tecnologico, non verso il pensiero artistico.
Per dar forza all'azidetto pensiero riassumo di seguito uno scritto di William Curtis.
In Architettura ciò che viviamo oggi è l'eredità di un passaggio di testimone non avvenuto. Nei primi anni 60, la critica di Sigfried Giedion, pervasa da un genuino ottimismo, annunciò Utzon e Tange come paladini di una “terza generazione” di architetti custodi dei segreti della grand tradition del moderno. Al tempo era normale credere che quella fiaccola d'ispirazione fosse trasmessa dal maestro all'allievo come di padre in figlio. Utzon e Tange vennero accostati anche a Sert, Lasdun il giovane Stirling e Kahn, per le somiglianze stilistiche, volte alla ricerca di una maggiore plasticità, ma tutti loro non costituirono mai un movimento compatto. Perfino gli architetti del Team X avevano modi estremamente diversi di interpretare l'approssimativo consenso teorico quando si trattava di realizzare soluzioni formali. I loro linguaggi si costituirono sullo sfondo del declino dell'International Style, ed essi si volsero alle opere tarde dei maestri nella propria ricerca di un'architettura di maggior robustezza e complessità. Pur rispettando alcuni dei principi guida dell'architettura moderna non difesero una servile ortodossia. La loro posizione fu caratterizzata da una tensione tra l'obbedienza ai padri fondatori, il bisogno di cristallizzare una situazione in mutamento e il desiderio di espressione personale.
Vorrei soffermarmi proprio su questo “desiderio di espressione personale”, che credo sia lo spirito che muova ancora oggi il mondo. Da sempre trovo che l'arte e anche l'architettura siano un modo più o meno efficace ma “magico” per affermare la propria “presenza Heideggeriana” (intesa come esserci) e ho trovato una certa assonanza in queste mie ricerche anche con gli studi etnologici e folkloristici di Ernesto De Martino, volti a dare un'interpretazione al mondo magico-religioso dei contadini dell'Italia meridionale. Per De Martino le pratiche magico-religiose svolgono un ruolo di difesa in un mondo minacciato dall'insicurezza e svolgono il loro ruolo, proiettando l'individuo in una dimensione metastorica, fuori dalla storia; in questo senso la “presenza” svolge un ruolo di fuga dalla realtà. L'artista o l'architetto, in questo desiderio di espressione personale, anche oggi trova la fuga o la “cura” da questo disagio, affermando il suo esserci, per un attimo o per il tempo necessario a plasmare e condividere l'idea rendendola fruibile.
Contemplare un opera d'arte altrui può portare a un'affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusione e allucinazione, Stendhal ne fu testimone e da qui prende il nome la “sindrome” anzidetta, che ci fa comprendere chiaramente che esistono molti meccanismi o linguaggi al mondo per trasmettere in maniera efficace sentimenti ed emozioni. L'arte fa tutto ciò ormai da secoli, fregandosene del tempo.
Per far intendere meglio i legami anzidetti, fra pratiche magico-religiose e arte, vorrei portare alla ribalta un altro concetto, questa volta Junghiano, quello della “sincronicità” ovvero delle “concidenze significative” che non sono infrequenti, di stati soggettivi e fatti oggettivi che non si possono spiegare casualmente, almeno con le nostre risorse attuali. Jung per ottenere questa grazia divinatoria delle sincronicità utilizzava l'arte, in particolare dipingeva mandala che ci ha tramandato insieme a tutti i ragionamenti ed esperienze del caso volutamente a posteriori, con il suo inedito “Libro Rosso” . Alla fine della sua opera sulla sincronicità, Jung pervenne alla conclusione che gli eventi sincronici non sono solo sporadici accadimenti privi di ordine, egli suggerisce alla fine dell'opera l'ipotesi che gli eventi sincronici siano fenomeni casuali di ciò che egli chiama “ordinamento acasuale”, in altre parole tra la realtà psichica e la realtà fisica vi è un comune ordine atemporale costante e le sincronicità, che ricadono in questo stesso ordine, sono singole manifestazioni attualizzabili e sporadiche.
Si potrebbe andare avanti analizzando in termini psicologici l'arte e l'architettura ma il linguaggio e la semantica del ragionamento distoglierebbero dai soli fini critici e pratici di questo mio carteggio.
Il filo conduttore che muove queste mie ricerche, orientate anche al magismo nell'arte, nasce dalla mia stessa esperienza diretta e pratica e vuole utilizzare lo stesso approccio etnografico di Ernesto De Martino descrivendo alcuni fatti o coincidenze, che approfondirò in altri articoli.
Tornando al discorso architettonico, e al lascito degli architetti nella “terza generazione”,
William Curtis nella sua critica narrativa ci tenne a sottolineare il passaggio che vi fu, nello stesso periodo, tra architettura e gli ambiti dell'edilizia generica, in modo particolare quella residenziale e commerciale, “ si assistette tuttavia al trionfo di una banale formula internazionale. L'ottuso riduttivismo che ne risultò era una caricatura dell'appassionata semplicità dei lavori seminali d'architettura moderna. La disciplina funzionalista venne confusa con gli scopi strumentali della proprietà immobiliare; le burocrazie impegnate nella pianificazione fecero proprie immagini tabula rasa della città moderna e le applicarono con un senso di certezza fiducioso, moralizzante e stupido; quello che era cominciato come un sogno urbano alternativo venne assorbito da uno status quo eccessivamente monotono.”
Ancora oggi possiamo riassumere che la nuova architettura fraintenda ancora lo spirito della disciplina funzionalista con gli scopi strumentali della proprietà immobiliare, che probabilmente si riuscirebbe a combattere se solo gli artisti o architetti di oggi avessero un po' di sana cultura e “buonsenso emotivo”, concretizzando in termini artistici la sola volontà di espressione personale, senza imbrigliarla in fascinosi algoritmi alla base di qualsiasi strumento informatico, normativo e costrittivo. Arte è libertà immortale, non si può imbrigliarla, nemmeno il tempo vi riesce, e come diceva Bruno Munari “l'arte o c'è o non c'è, sarebbe come spiegare lo Zen” riferendosi all'insegnamento della tecnica artistica. Su una cosa sono sicuro, chi può fare arte deve essere capace di comprendere in primis le proprie emozioni, per poi dar loro un'espressione personale. Umberto Galimberti ne parla in questi termini: “sono le emozioni estetiche che ci sorprendono, ci prendono alle spalle, ci trascinano in un altrove che ci porta fuori dalla realtà e persino dal nostro mondo, per offrircene un altro di cui non siamo gli autori, e neppure gli spettatori, ma i trasportati dalle cadenze della musica, dal ritmo della poesia, dalla visione estatica delle opere d'arte, “stupiti” come dice Aristotele, “senza concetto e senza scopo” come dice Kant, “trafitti” durch-stehet come dice Thomas Mann, “salvati” dal monotono accadere delle cose del mondo, come dice Fedor Dostoevskij. E' la bellezza. Assolutamente non definibile, sottratta a quella cattiva infinità, per cui una cosa è solo un mezzo per raggiungere un'altra cosa, senza mai approdare all'inutile, in cui si svela quel segreto dove ciò che si sente rimanda all'inaudito, ciò che si dice rimanda all'ineffabile, ciò che si vede rimanda a ciò che non si vede, il visibile all'invisibile. E queste due dimensioni, che nessun concetto raggiunge sono raccolte dall'emozione estetica, a sua volta catturata in una dimensione estatica, dove neppure essa è in possesso di se.”
L'ambiguità tra esperienza architettonica e artistica, che ritengo fondamentale per ripensare alla trasmissione dei prossimi valori culturali, è sempre stata scavalcata a pie pari per non incorrere nella ormai vetusta distinzione filosofica greca, inciampando così nel discorso ontologico dell'arte, del mondo delle Idee Platonico o del mondo fenomenologico sicuramente prekantiano. Eppure molti architetti si sono ispirati alla pittura più o meno contemporanea per indagare. Van Eyck ad esempio si ispira al primo Mondrian, prima del De Stijl, con una poetica compositiva di elementi che confluissero ambiguamente in pianta. Traslazione spaziale di un idea bidimensionale. Questa ambiguità o casualità è generatrice di un valore artistico culturale intrinseco del nostro tempo ma che si palesa in momenti a noi poco chiari. Io ad esempio personalmente condanno “l'architettura parametrica” perché eccessivamente controllata da algoritmi matematici e quindi per l'assenza del input casuale e geniale propri solo dell'atto creativo. Sergio Bettini lo chiamava “timing”, e lui, sono certo, avrebbe trovato per la scrittura di questo testo un linguaggio perfetto, quasi poetico, per definire al meglio e a prova di critica ogni concetto qui descritto, ma il testo nasce sopratutto per far riflettere e trasmettere emozioni al lettore, anche se mi riservo la possibilità di rimaneggiare questi veloci carteggi e dar loro una valevole stesura.
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